Arjan Shehaj | PATOS
Dal 23/06/2022 Al 08/09/2022Arjan Shehaj
“Patos”
Testo a cura di Domenico de Chirico
Raffaella De Chirico Arte Contemporanea, Torino-Milano
Di origine peripatetica, la parola greca pathos indica insieme quel senso di passione e di concitazione proprio della tragedia. Tuttavia, l'evoluzione moderna di questo termine pone l'accento soprattutto sulla capacità di un'opera d'arte di suscitare contemporaneamente emozione e compartecipazione estetica nello spettatore. Un tale risultato è il frutto di una commistione irripetibile di sentimenti che fanno rima anche col senso primigenio etimologico della parola pathos, ovvero quello che fa riferimento alla sofferenza. Eppure, questo effetto vorticoso e cangiante o, per meglio dire, il suo substrato scatenante, permane in un luogo liminale che si interpone armonicamente tra l'opera e lo spettatore, un groviglio indefinito e diafano che coinvolge tutti gli elementi in gioco. Ed ecco dunque che il vortice trova la sua cerchiatura geometrica, il cane inizia a mordersi la coda e il filo strutturale di ogni cosa trova il suo senso con fare esauriente e perpetuo. Iniziamo dalla città natale dell'artista in questione, ovvero Patos, comune albanese situato nella prefettura di Fier, ricettacolo di influssi tragici caratteristici della parola di cui sopra, da cui ha preso piede, diventandone matrice indiscussa, l'investigazione artistica quasi ossessiva, connotandone persino la cromia, ed estremamente evolutiva di Arjan Shehaj, costituita dalla ricerca della struttura dell'essere, l'essenza spoglia ed evanescente di ogni cosa. Per essere egli intende solo ed esclusivamente quella linea bidirezionale che intercorre indissolubilmente tra realtà e percezione umana. Il tratto è impercettibile e smisurato, al di fuori di qualunque categorizzazione spaziale, sembra proprio che Shehaj si prenda beffa dello spazio e del tempo in quanto le sue opere appaiono scivolare su tali coordinate, attraversandole con estremo agio e in maniera cadenzata, e così facendo le tiene in pugno. Questi nodi sfuggenti ad una collocazione spazio-temporale non sembrano forse sussurrare la forma possibile di quel pathos liminale e complesso, frutto di sangue estratto dalla profonda essenza della realtà e di aerea leggerezza dell'esistere? La risposta si trova in queste opere, create da una "ragione intuitiva" emancipata dalla forza di gravità terrestre, di vocazione allegoricamente sia olografica sia antropometrica, incentrate su forme pure, irriflesse e libere a base geometrica e che si presentano, in ultima istanza, come fibre reticolari magnificentemente encefaliche e labirintiche da cui emerge un'energia conturbante e la cui potenza, propria della materia informe, permette alle cose di assumere la realtà formale con grande forza e vigore, poiché, come scriveva Kazimir Severinovič Malevič, pittore russo fondatore della corrente Suprematista: «l'arte non si preoccupa di servire lo Stato e la religione, non desidera più illustrare la storia dei costumi, non si vuole avere più nulla a che fare con l'oggetto, in quanto tale, e credere che possa esistere, in sé e per sé».